Siamo, anche quest’anno, nelle piazze a manifestare perché si fermi questa devastante violazione dei diritti umani: dal 2012 mancano 1.074 donne, 98 nel 2021, morte di femminicidio.

Non è una celebrazione e non ha bisogno di retorica umanitaria.

È un monito di responsabilità per affrontare un fenomeno che non recede e compromette la vita e i diritti di cittadinanza di milioni di donne nel mondo.

Una responsabilità che va affrontata investendo seriamente sia sulla prevenzione che sull’accompagnamento delle donne per uscire dalla violenza.

Una buona parte dei primi Centri Antiviolenza sono nati dalla esperienza dell’UDI e di collettivi femministi. Oggi, sono 103 solo i Centri Antiviolenza della rete nazionale D.i.R.e. la più ampia del nostro Paese.

Il Centro Donna Giustizia di Ferrara, parte di questa rete, nasce negli anni ’90 come Associazione autonoma, dall’UDI di Ferrara, proprio col fine di unire l’attività di prevenzione culturale della violenza maschile sulle donne all’attività di accoglienza delle donne vittime di quella violenza. Da oltre trent’anni le due associazioni collaborano per modificare la cultura patriarcale e sessista che della violenza maschile sulle donne costituisce la fonte.

I Centri di D.i.R.e nel 2020, in piena pandemia, hanno accolto 20.342 donne, con i loro figli, maltrattate da uomini violenti.

I numeri non raccontano da soli la complessità e la estensione della violenza sulle donne, ma aiutano a capire che è un fenomeno strutturale e come tale va affrontato, senza cedimenti o discontinuità.

La prevenzione ha bisogno di una continuità di conoscenza, soprattutto per le giovani generazioni, che sappia collegare la storia dei diritti delle donne ai limiti che la violenza ha sempre posto alle libertà sociali ed economiche delle donne. È una storia antica, come dimostra la attuale mostra didattica “Oltre Dafne fermare Apollo” realizzata da UDI, ma dalle conclusioni moderne. “La violenza contro le donne è antica quanto il mondo ma nessuno pensa mai di raccontarla perché molti non la riconoscono e molti pensano che sia naturale e conveniente”

La violenza contro le donne non può più essere “normalizzata” o tollerata come un aspetto esasperato di una cultura sessista che continua ad alimentare discriminazioni e disuguaglianze nel lavoro come nella organizzazione sociale.

In questi ultimi anni si sono intensificate leggi, direttive europee e internazionali, ma non basteranno mai senza la consapevolezza radicale che il contrasto della violenza ha una continuità, dalla prevenzione, al sostegno, alla reale e severa condanna in sede penale e civile degli autori, al cambiamento della giustizia e del linguaggio che ancora troppo spesso alimenta l’idea di una responsabilità delle donne che sono vittime di violenza, anche con la complicità di una parte del sistema mediatico.

Le donne non sono nate per essere vittime, lo diventano e non è un destino inevitabile.

Un 25 novembre senza retorica deve affrontare le strategie per restituire autonomia e libertà alle donne che ne sono state private dalla violenza maschile. Lavoro dignitoso, una casa dove ricostruire la propria libertà, un accompagnamento verso l’autonomia di scelta, sono gli impegni da assumere. La tutela e la garanzia della sicurezza nella fase di emergenza deve continuare, è il primo passo, ma se rimane l’unico non vi è possibilità di uscire dalla violenza.

Dopo dieci mesi di attesa, il 4 novembre è stato presentato alla conferenza Stato-Regioni il nuovo Piano strategico nazionale per il contrasto della violenza maschile contro le donne 2021-2023. Sarà importante, oltre al miglioramento delle reti locali di prevenzione e di tutela, capire quanto il Piano si interfaccerà con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che ha tra le azioni trasversali obbligatorie la parità di genere.

La violenza compromette la parità se non vi sono azioni di promozione della autonomia delle donne e di empowerment delle donne che vogliono uscire dalla violenza. D’altro lato, la mancanza di parità favorisce e alimenta la violenza sulle donne.

Per questo è opportuno continuare con le azioni di conoscenza e di prevenzione, ma anche individuare le nuove chiavi di lettura di possibili inversioni sociali ed economiche.

Finalmente si pone l’accento sul contrasto alla violenza economica, la meno analizzata e più insidiosa con misure concrete per fermarla.

Potremo finalmente provare ad integrare le risorse dedicate al contrasto della violenza con quelle pensate per la ripresa economica e sociale dell’Italia dopo la fase acuta della pandemia?

In questo modo il contrasto della violenza contro le donne potrebbe diventare una opportunità di crescita economica investendo sulle risorse femminili mortificate e cancellate dalla violenza.

Questo è il cambio di marcia che aspettiamo da anni: rendere efficaci tutti gli strumenti di tutela e di emergenza, ma proiettandoli al futuro verso progetti veri di restituzione alle donne, mortificate dalla violenza della padronanza delle loro scelte di vita libere da violenza e discriminazioni.

Vanno perfezionati protocolli per il reinserimento lavorativo delle vittime di violenza, vanno costruiti accordi locali tra Istituzioni, Imprenditoria, Organizzazioni Sindacali, Associazioni e Centri Antiviolenza. Vanno pensate forme di inserimento lavorativo all’interno della contrattazione collettiva, percorsi formativi che guardino allo sviluppo delle competenze, orientati alla riqualificazione e non solo a lavori precari e di bassa qualità. Deve essere costruito un sistema di incentivi all’occupazione che abbiano un riferimento nei “redditi di libertà”, nei microcrediti finalizzati alla autonomia. Dopo la legge del 2015, l’estensione del congedo dal lavoro per le vittime di violenza può essere portato a sei mesi. Si devono costruire contributi al lavoro autonomo delle donne pensati con un’estensione almeno di cinque anni per poter consolidare le attività avviate, così come si deve investire sul lavoro dipendente trovando risorse e strumenti per equiparare concretamente i salari percepiti tra occupati e occupate. Risorse e strumenti da ricercare nella contrattazione aziendale e territoriale per adottare misure correttive anche a livello locale.

La violenza distrugge la autostima delle donne che possono pensare di non poter organizzare la vita propria e dei loro figli senza la presenza di un uomo, lo stesso che le maltratta e le umilia. L’unica via di fuga è spesso l’abbandono delle proprie case, dovendo cambiare abitudini di vita e dovendo vivere “nascoste”, sotto tutela.

Questa può essere una condizione transitoria per avviare il percorso di uscita dalla violenza e per reimparare a vivere da persone libere e autodeterminate.

Determinante è perfezionare e sostenere le misure per permettere concretamente e politicamente alle donne di svincolarsi da relazioni tossiche. Servono interventi urgenti e duraturi per sostenere e promuovere la formazione e la specializzazione professionale, per facilitare e sostenere l’accesso al mercato del lavoro, per contrastare discriminazioni salariali e contrattuali, per sostenere l’imprenditoria femminile, un reddito decoroso e, non ultima, l’autonomia abitativa.

La autonomia abitativa, anche nel nuovo Piano Nazionale, è inserita in una nuova articolazione della rete di accoglienza sino ad ora praticata. Serve un percorso dalle case rifugio fondamentali nel momento di rischio, agli alloggi di semi autonomia anche attraverso forme di co-housing e alla possibilità di accesso al patrimonio dell’edilizia pubblica per le donne in uscita dalla tutela.

Serve inoltre, come abbiamo ribadito, un’azione decisa e coerente sulla prevenzione, che preveda la presenza obbligatoria nei piani formativi scolastici di percorsi di educazione all’affettività ed alla sessualità, contro gli stereotipi.

Sembra difficile?

È una questione di responsabilità politica.

È una strada di misure concrete per smettere di lasciare il 25 novembre “ostaggio della retorica”.

Centro Donna Giustizia

U.D.I.

C.G.I.L.

C.I.S.L

U.I.L.

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